Di seguito potete anche leggere la lettera ai parlamentari cattolici sui DI.CO. di Don Vitaliano della Sala.
I DI. CO. sono un passo avanti di civiltà
Ai parlamentari cattolici italiani
Signore e signori parlamentari cattolici,
ultimamente su Avvenire è stato giustamente riaffermato che “la Chiesa annuncia ciò che ritiene essere il bene di tutti correndo – se serve – il rischio di apparire testarda pur di salvare il futuro della persona e della società. Anche guardando oltre lo sguardo talora corto della politica. Libera Chiesa in libero Stato, disse la rivoluzione liberale. Libero Stato, ma libera anche la Chiesa di insegnare, senza le bacchettate e le correzioni di linea di autorevoli ma improvvisati maestri”.
Tutto questo è decisamente vero, nella misura in cui è vero anche il contrario. La Chiesa deve poter parlare liberamente, e nessuno può affermare che nel nostro Paese non ci sia questa libertà, viste le continue prese di posizione e intromissioni nella politica italiana, ad esempio, del cardinal Camillo Ruini. Semmai ci sarebbe da chiedersi se la Chiesa, al proprio interno rispetti la stessa libertà di pensiero e di parola: spesso chi dissente nella Chiesa viene zittito e represso senza appello, nel silenzio generale. Voltaire diceva, “non condivido la tua opinione ma sono pronto a dare la vita perché tu possa esprimerla”, e anche nel Vangelo ci sono tante parole sul rispetto degli altri, delle idee e delle libertà altrui. Quando, alcuni mesi fa, a Siena il cardinal Ruini fu contestato a suon di pacifici “fischi e pernacchie”, proprio per le sue posizioni di chiusura rispetto ai Pacs, le reazioni di molti tra voi politici italiani al reato di “lesa cardinalità”, non si fecero attendere e, come al solito, furono prone, esagerate, interessate, antidemocratiche; chi le pronunciò fece finta di dimenticare, che le contestazioni e il dissenso sono l’anima della democrazia: in Arabia Saudita e in Egitto il re o il presidente non si possono contestare; in Iraq e in Afghanistan non si poteva protestare contro Saddam o contro i Talebani (e dubito che lo si possa fare oggi, nonostante la cosiddetta liberazione!); e anche in Vaticano la libertà di espressione lascia molto a desiderare. Ma, per grazia di Dio, l’Italia non è una dittatura, né uno Stato confessionale e teocratico.
Come cittadino italiano non posso accettare deroghe alla laicità dello Stato, alla sua imparzialità che è un principio garantista a tutela di tutti, voluto dalla Costituzione perché i diritti e le libertà civili di ognuno fossero rispettati. Uno Stato che si permette di entrare nel merito di questioni che esulano dalla sua competenza decidendo che un diritto sia più diritto di un altro è uno Stato che non dovrebbe lasciare tranquillo nessuno. Cosa vieterebbe infatti a questo Stato, domani, di decidere che i diritti dei cattolici sono meno diritti di quelli di altri?Come cristiano devo ricordarvi che la teocrazia non piaceva neanche a Gesù Cristo. «Date a Cesare quel che è di Cesare, ma date a Dio quel che è di Dio» non implica forse la separazione dei due ambiti, quello civile e quello religioso? Non pare che abbia mai fatto bene – bene autentico, s’intende – alla Chiesa l’alleanza con il potere politico. Così come è estranea ai Vangeli ogni logica di potere, ogni braccio di ferro e prova di forza: a pensarci bene, nessuno lascia gli uomini più liberi di quanto non faccia Dio. Nessuno è mai stato fulminato da Dio per le scelte che ha compiuto. Neanche Torquemada. Anzi, sempre nei Vangeli, è scritto di lasciare che il grano e la zizzania crescano insieme, per non rischiare di confonderle, o meglio per non arrogarsi il diritto di giudicare che cosa è grano e che cosa è zizzania. Esiste – e tutti lo sanno bene perché è visibile, forse troppo visibile – la Gerarchia “trionfante” della Chiesa cattolica italiana, quella eternamente “costantiniana” dell’in hoc signo vinces, sempre pronta a pretendere privilegi e a fare compromessi con i potenti, potente essa stessa. Una gerarchia che sa solo pronunciare i suoi eterni ”no” di fronte a qualsiasi richiesta di apertura che viene dalla base, senza preoccuparsi in alcun modo delle sofferenze che i “no” provocano; una Chiesa che appare formata esclusivamente della gerarchia e da queste è esclusivamente rappresentata, senza aver ricevuto delega alcuna da parte della base. Di partecipazione dei fedeli laici alle decisioni, neanche a parlarne, come pure di democrazia interna e di diritto-dovere al dissenso.
Ma, oltre questa Chiesa gerarchica, anzi dentro di essa, un’”altra” Chiesa, Chiesa-altra, non è solo possibile ma è già realtà. Una Chiesa-altra che ha imparato ad usare “il potere dei segni, anziché i segni del potere”, come diceva il compianto don Tonino Bello, presidente di Pax Christi. Una Chiesa-altra viva, fatta di vescovi e preti coraggiosi, di fedeli laici impegnati, anche se costretta a vivere “nelle catacombe” della paura di essere inquisita, punita, processata. È la nuova Chiesa del silenzio che, però, prende sempre più coraggio e emerge dall’oscurità nella quale è stata ricacciata o nella quale si è autorelegata. Una Chiesa-altra che “scopre” sempre più i mezzi di informazione e comincia ad usarli come i “tetti” del nostro tempo, dai quali Gesù ci invita a gridare il suo messaggio di liberazione (cfr. Matteo 10,27) e, a sua volta, è “scoperta” dai mass media. Chiesa-altra che non si vergogna di pronunciare il nome di Gesù Cristo, non arrossisce del Vangelo, ma da esso parte per riflettere sul mondo e sulla società, senza mai condannare, né escludere o emarginare nessuno. Chiesa-altra sempre più indispensabile alla Chiesa universale, perché questa si presenti all’umanità nella sua pienezza “tutta bella, senza macchia, né ruga”. Io sono convinto che la pseudo-pastorale della contrapposizione, della durezza, della perentorietà, crei soltanto allontanamenti, incomprensioni sempre più profonde, fratture insanabili. Occorre invece mettere in campo una pastorale che getti ponti.
Non serve a nulla essere animati dal sacro zelo di mandare la gente all’inferno; soprattutto, noi cristiani non possiamo contribuire a innalzare muri e steccati tra le persone. Ma tant’è, di questi tempi, così ostili alla circolazione delle idee dentro la Chiesa, è diventato sempre più rischioso, sempre più un lusso proibito il dialogo e il confronto; e si confonde la fedeltà alle verità di fede con il pensiero unico, l’unico che si deve professare. Confrontarsi con le scelte (anche quelle solo pastorali) degli altri, avendo almeno rispetto per la serietà e la sincerità della loro coscienza, diventa pericoloso: meglio accusare l’altro di cattive intenzioni che affrontare le questioni che pone. Sulla questione che pongo, signori parlamentari, si interrogano in tanti dentro la Chiesa. E lo fanno con serietà e sofferenza, senza superficialità e facilonerie, lo fanno con amore e, soprattutto, davanti a Dio: al suo cospetto.
C’è una breve parabola nel Vangelo che parla del granello di senape, il più piccolo tra tutti i semi, che diventa un albero frondoso, «e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra» (Luca 13, 18-19): paradigma della Chiesa-altra che in molti sogniamo. Una Chiesa inclusiva, che non emargina, non usa la pesante scure del giudizio su nessuno, “una Chiesa degli esclusi e non dell’esclusione” (mons. Jacques Gaillot), capace di accogliere, di portare tutti , proprio tutti, maternamente in seno. Le recenti prese di posizione sulle unioni di fatto, sull’uso dei profilattici anti-HIV e su altre problematiche calde, da parte dell’episcopato spagnolo, del cardinale Carlo Maria Martini, di quello belga Godfried Danneels, e dello svizzero George Cottier, già teologo della Casa Pontificia durante il pontificato di Giovanni Paolo II, fanno ben sperare in una Chiesa cattolica che, pur testimoniando e proponendo i propri valori, non si sogna nemmeno di imporli ad una società laica che deve essere, invece, ascoltata e compresa. Voi parlamentari cattolici, in questi giorni, siete chiamati a decidere sulla proposta di legge del governo circa le unioni di fatto. Sicuramente ascolterete quanto chiede da voi, quasi vi impone, la gerarchia cattolica italiana.
Vi chiedo, vi imploro, di ascoltare anche quanto la Chiesa-altra vi dice e si aspetta da voi. Se la Chiesa ha il diritto-dovere di difendere l’istituto del matrimonio tra uomo e donna e di “imporlo” ai credenti, non può imporlo a tutti gli altri; soprattutto deve apprezzare uno Stato laico che propone una legge sui “diritti e i doveri dei conviventi”, badando bene a non confonderli con quelli del matrimonio tradizionale. Come cattolico devo accettare che una legislazione civile determini condizioni di coabitazione e diritti per le coppie etero e omosessuali, anche se non posso accettare che lo si confonda con il matrimonio. Non bisogna confondere le cose: i concetti e le parole devono restare univoci. Bisogna fare una distinzione tra giudizio etico e le leggi che regolano la vita nella società. Mi domando quanti, anche tra i cattolici, abbiano veramente compreso la straordinaria bellezza della morale cristiana. L’orizzonte che si apre sull’altro, la liberazione dalla prigionia di sé, l’uscita dai propri confini per avventurarsi nel riconoscimento della realtà dell’altro che mi è ad un tempo simile e profondamente diverso. Un altro che mi sta a cuore, un altro a cui regalare me stesso, un altro il cui volto rivela il volto di Dio. Questo amore per l’altro ha trasformato esistenze, ha reso vite straordinarie e reso utopie realtà. Questo amore assolutamente folle, serissimo e autentico è il cuore della morale cristiana. Eppure per molti non è affatto così. Non è così per coloro che si affannano a presentare una morale fatta di divieti e prescrizioni, fondata sul perentorio “non devi” piuttosto che sull’affascinante “se vuoi”. Una morale dimentica del fatto che la morale – come il sabato del Vangelo – è al servizio dell’uomo e non, viceversa, l’uomo al servizio della morale. Non è così per coloro che questa morale se la vedono imporre dall’esterno, per coloro ai quali la morale fissista fa da paravento all’autentica morale della liberazione e dell’amore, l’unica capace di condurre alla rinuncia e al dono di sé. Si consuma così un tragico divorzio tra la morale e l’amore. Uno dei luoghi, forse il più significativo, in cui si attua questa separazione è il campo dell’etica sessuale.
Certamente lo sfruttamento economico e perverso del sesso è una gravissima violazione dell’altro; l’abuso del corpo del debole è peccato che grida vendetta al cospetto di Dio; il sesso come uso dell’altro, come fuga dalla disperazione e dall’inconcludenza di troppe esistenze è ingiuria ed offesa dell’altro. Di fronte a queste ed altre cose ancora, la morale della condanna e della denuncia conserva la sua plausibilità.
Non si può dubitare che anche nel sesso – come in ogni altra cosa della vita – vi sia un’etica dell’amore. Non generica e fumosa, ma concreta e stringente quanto lo è l’altro che mi trovo di fronte. Tuttavia di fronte a un’etica sessuale che afferma un categorico no, ad esempio, contro qualunque esercizio dell’omosessualità – visto che soprattutto questo crea problemi nella riflessione sulle coppie di fatto – si prova disagio. Io provo disagio. E so che lo provano moltissimi credenti e cattolici praticanti; moltissimi preti. Non si tratta del disagio di chi si lascia lusingare dal canto delle sirene, di chi , affetto da complesso di inferiorità ecclesiastica, vorrebbe scendere a compromessi su tutto e con tutti e avere una Chiesa supina al pensare della maggioranza, alla moda e acriticamente a braccetto coi tempi. E’ un disagio che nasce dal Vangelo, dal bisogno di fedeltà sostanziale al comandamento dell’amore lasciato da Gesù: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 12,7).La discriminazione vera, e dunque l’incapacità di andare incontro all’altro nell’amore alla diversità dell’altro, non nasce forse da un’opportunità negata agli uni mentre è riconosciuta diritto per gli altri? Può essere davvero questo il volere di Dio?
C’è un passo molto bello nella Bibbia, del profeta Isaia, in cui Dio dice: «su, venite e discutiamo». Ogni singola affermazione della Bibbia è parte di questo dialogo e isolarla rischia di snaturare il dialogo stesso. Prima di arrivare al “fino a questo punto è lecito, oltre questo limite no”, io credo che bisogna entrare nel clima di dialogo e di confronto che è proprio delle Scritture. Questo coraggio di discutere su tutto, sempre, dovrebbe essere la regola nella Chiesa come nella politica, nelle comunità di qualsiasi genere come nei rapporti interpersonali.
Sant’Agostino diceva: “Ama e fa ciò che vuoi”. Questo non è certo un invito alla deregulation totale, a vivere al di là del bene e del male o come se chiunque potesse decidere nella soggettività più assoluta cosa è bene e cosa è male. E’ un invito, invece, a partire con il piede giusto, quello dell’amore, cioè dell’uscita da sé e dell’apertura all’altro. Prego il Signore perchè benedica il vostro lavoro e vi faccia partire con questo piede giusto nella discussione della proposta di legge che andrete ad esaminare nei prossimi giorni.
Con cristiana franchezza,
don Vitaliano Della Sala
Sant’Angelo a Scala, 10 febbraio 2007